L’inadeguato / Lo Inadecuado / The Inadequate
Progetto di Dora Garcia/ Padiglione spagnolo alla Biennale di Venezia 2011
Contributi al progetto di Dora Garcia, Francesco Matarrese e Cesare Pietroiusti
a cura di Mattia Pellegrini
Conversazione sul progetto
e-mail aprile-novembre 2011
08/05/11
Good evening Francesco, Cesare, I was not sure in which language I should write I decided to write in English because I’d like to comment on the English version of FRANCESO MATARRESE REFUSAL. The paper is translated into English and I have used the English version. But PLEASE, answer me back in Italian, I understand it perfectly (with a dictionary). The comments are about Francesco’s paper, but I’d very much like to hear the opinion of both.
It is an extraordinary paper, worth several questions, I will start with the most fundamental:
1/ “On March 18, 1972, with this declaration I announced the birth of an art form of the future”. I remember you mentioned as well in Cesare’s studio that the project “L’inadeguato” in Venice could be an art form of the future. This expresion, “art form of the future” implies the notion of “progress” in art (an art of the past, an art of the present, an art of the future), as well as the possibility that the art being made is not relevant for the historical situation “now”. Do you think artistic practice as it is now is a disappointment, a reactionary form, inadequate for the historical present?
2/ Francesco, you establish in this paper a comparison between the “unskilled” factory worker and the “genre-indifferent” avant-garde artist. But as I have always seen it, the rejection of technical virtuosity, or any special quality differentiating the artist from the common man was precisely a rejection of the bourgeois idea of art as technical feat, as a curious thing to watch and in the end as a merchandise. So I’d see the “genre-indifferent artist” as an attack on the bourgeois idea of art, precisely a rejection of “the terrorizing world in which everything is exchangeable with everything else.” By refusing to comply with this task as “qualified producer of objects”, the “genre-indifferent” artist refuses the most fundamental rule: to do something. Wouldn’t you agree with that?
3/ finally, this great idea coming from Francesco: to substitute the notion of “artist” (producer of art) for the notion of “collector”, to substitute the notion of “artwork” for “non-art work”. Could you elaborate on that? i find it very relevant for the work presented in “L’inadeguato”- as well for the project of Cesare, “museo dell’arte italiana contemporanea in esilio”. Here I’d like to hear as well the opinion of Cesare about his “esilio” project in relation to this, artist vs collector, and artwork vs. non-art work.
In case it is useful, I include under an Italian google translate version. Good night and looking forward to hear from you,
Dora
13/05/2011
Finalmente Dora. Benvenuti, Dora, Cesare. La nostra conversazione è straordinaria.
1) Si, Dora, a Roma dissi che il tuo progetto era una forma del futuro. Il tempo futuro a cui penso non è però né il tempo di chi fugge né quello del progresso (il tempo dei vincitori). C’è un tempo futuro diverso, lontano da noi, ma a cui guardo con speranza. E’ il tempo che tutti gli oppressi e gli esclusi aspettano che “si compia”. Il tempo che libera. E’ il tempo degli inattuali di Nietzsche, degli uomini postumi.
Il tempo futuro che “si compie” è forse il tempo della “grande forma” cercata agli inizi della modernità (pensa per esempio a Musil o a Schönberg) e che continua ad essere assente. Assente è la sua “unità” (come probabilmente Robert Morris notò nel ’61 quando Column cadde). Tutto ciò è profondamente drammatico. In quel tempo gli uomini che partirono, lasciando “lo stato di cose presente”, iniziarono a rompere la vecchia forma e a fare arte in “assenza di forma”. A noi tocca andare avanti. Stiamo completando la rottura della vecchia forma, siamo impegnati a togliere il “fare qualcosa” dall’arte. Il “qualcosa” nell’arte, in un mondo di merci, è lo scandalo inaudito! A Roma vidi, cara Dora, che i tuoi occhi guardavano con indimenticabile coraggio verso questo luogo senza qualcosa, verso questo futuro. Io vedevo con te e Cesare. Io credo che il tuo grande lavoro a Venezia (e non solo) sia di strappare l’inadeguato al “qualcosa” (non spettacolo!) e a farlo vivere come inattuale (il contrario della richiesta di attualità e di progresso inseguito dal mondo dell’arte attuale). Questa conversazione è una prova.
2) La seconda domanda pone una questione complessa. Provo a sintetizzarla. L’operaio-massa che nella fabbrica moderna passa indifferentemente da un lavoro all’altro, è una delle espressioni più contraddittorie ma anche più profetiche del nostro tempo. Io sono attratto da questa contraddizione perché intravedo il lavoro vivo, il futuro. Infatti più la condizione di indifferenza si fa astratta e generale (o morta per Marx, come accade con l’operaio-massa alienato o con l’artista infelice a cui è permesso tutto) più è chiamato in “vita” il non virtuosismo, la non prodezza tecnica (come tu dici), la non specificità. Allo stesso modo avviene con il contrario. Più questa “vita” pensa di avere tutte le ragioni dalla sua parte più deve accorgersi che c’è una “assenza” (il generale, l’unico) incomprensibile ed avanza la morte. La vita si trasforma in morte e la morte si trasforma in vita. Io permetto a queste categorie moderniste di prendersi gioco di me, scambiandosi i ruoli continuamente. La speranza è che questo lavoro di morte possa un giorno liberare la sua promessa di vita. Come a primavera quando i lillà sono liberati dalla terra morta. A Roma con te e Cesare è accaduto qualcosa di molto importante. Il tuo progetto è straordinario perché è visionario, perché fonda un cantiere, uno scenario. Ma soprattutto perché può fondare un lavoro, un possibile lavoro nuovo, un lavoro vivo. E questo è ciò che noi aspettiamo.
3) Quanto all’idea di collezionista condivido il punto di vista di Benjamin. A certi collezionisti “inattuali” (come a Broodthaers o più recentemente a Cesare con la sua idea di Museo) può capitare di pensare che ci siano cose libere dalla schiavitù di essere utili. Anche questa è una grande speranza. E poi un certo tipo di collezionista mette “insieme”, come noi tre stiamo cercando di fare. Come tu vorresti fare a Venezia.
Io credo che gli artisti possano porre una nuova questione etica sulla sofferenza umana e che ci sia un passaggio al lavoro vivo. Questa conversazione è dentro il nostro destino, deve continuare. Buona notte Dora, buona notte Cesare. A presto Francesco
17/05/2011
Buenas noches, Francesco, Cesare.
Algunos comentarios más en nuestra conversación.
Me impresionó vivamente una de las frases que Francesco mencionó en nuestra conversación de skype: “una negativa (rifiuto) no debe suceder una sola vez, debe suceder una y otra vez”. El negarse, el rehusar, no es pues algo que se haga ante una cierta circunstancia, sino que se convierte en un modo de vida y por tanto, ¿En una obra? en la publicación “Francesco Matarrese Refusal, la pregunta (D:) dice: “Il tuo rifiuto dunque si emancipa in negazione critica, in non-arte”
Por una parte la negativa, el “rifiuto”, que debe suceder sin cesar, una y otra vez, hace pensar en Bartebly, esa fábula del artista contemporáneo, y sin embargo, la idea de “decir no” como obra, como trabajo de arte o de non-arte, me parece entrañar una contradicción con la visión negativa que Francesco tiene sobre el “artista no especializado”.
Porque yo creo que Bartebly, el artista que dice “no” con un “no” que no tiene ningún heroísmo sino más bien algo de inevitable, de destino, es una personaje muy cercano al artista no-especializado, que es para mí una figura positiva, una liberación de la necesidad de “hacer algo”, “ser excelente”, “hacer algo que los demás no pueden hacer”.
Podrías Francesco explicar un poco más tu visión de “non-arte” – ¿es posible algo semejante, no la convierte la negativa en su contrario, arte? y ves Francesco algún tipo de identificación con el el Bartleby de Melville, un personaje que Melville construyó para paliar su amargura por la literatura de su tiempo?
Un abrazo
Dora
18/05/2011
grazie dora e francesco per questa conversazione, così intensa. cerco di dare anche io il mio contributo.
1) sul tema della negazione, del rifiuto, del “no”. io amo i paradossi, sono affascinato dai momenti in cui il pensiero deduttivo (che spesso francesco mette in opposizione alla “cesura”, al taglio, al rifiuto) non riesce a procedere in modo fluido perché incontra un ostacolo, una contraddizione, un’antinomia. la non-opera è cosa ben diversa dal niente, così come la non non-opera (il tentativo di negare la negazione) è cosa diversa dall’opera iniziale. tento di fare un esempio. prendiamo uno stato in cui si esercita il diritto. poi prendiamo una situazione dittatoriale in cui quel diritto viene negato, e al diritto si sostituisce il non-diritto. porsi contro questa dittatura e contro lo stato di non-diritto, essere insomma per il non non-diritto, è cosa assai diversa dal diritto di prima, ed è, come direbbe francesco, una posizione di lotta. ogni atto di negazione insomma ha paradossali valenze affermative.
2) come si distingue allora il “qualcosa”, che tuttavia si fa, anche quando si è nel “non fare”? come si può riuscire a inoltrarsi, come dice francesco, nel campo dell’opera “senza qualcosa”? non credo che il problema sia soltanto passare dall’opera “materiale” all’opera “immateriale”, nelle varie declinazioni situazioniste, concettuali, performative o, come si dice in epoca informatica, “virtuali”. certamente questo aspetto esiste ed è importante quanto esso abbia contribuito ad una critica del mercato e del feticismo dell’oggetto. secondo me la questione è nel “qual” (cioè nella “qualità”) del “qualcosa”, e nella modalità tattiche che il soggetto (la singolarità su cui giustamente francesco insiste) sceglie di mettere in atto.
sul primo punto, vorrei citare la riflessione di agamben sul concetto di “qualunque”, o “quodlibet”. il qualunque come ciò che piace, come “amabile”. la “qual-ità” di ogni cosa è la sua amabilità, la sua potenzialità di creazione del desiderio. potenzialità non è realizzazione; amabilità non è consumo. proporrei dunque che l’opera “senza qualcosa” di cui parla francesco sia assenza di realizzazione e di consumo e che il carattere del lavoro, la qualità di quell’opera, sia l’amabilità, la potenzialità del tutto. in questo senso secondo me si concilia la osservazione di dora (che condivido in pieno) sull’artista “non-virtuoso e “generico” come artista che propone una emancipazione rispetto all’idea capitalista e borghese della produzione specializzata e professionale, con l’allarme di francesco rispetto al “generico”, indifferenziato, ma “capitalizzato”, lavoro morto. il “qual” del “qualcosa” o del “qualunque” è sia indifferenza (lavoro morto) che potenzialità, amabilità (lavoro vivo). credo si possa scegliere uno e non l’altro.
sul secondo punto, cioè la tattica, propongo di considerare il concetto di “spostamento”, l’azione che l’artista sostituisce alla produzione materiale, l’azione che si autonomizza dal campo in cui essa in genere si esercita. il gesto critico, che è sia azione che rifiuto, è lo spostamento – del punto di vista, della propria posizione spaziale e anche temporale, dei limiti disciplinari, degli strumenti che si usano, delle aspettative ecc.
l’inattualità (di cui parla francesco), l’inadeguato (dora), il non-funzionale (cesare) sono tutte modalità di definire posizione “spostate” e pratiche di spostamento (note for dora: in italian “spostato” means: “delocalized”, “displaced”, “moved from one place to another”, but also “crazy”).
3) l’artista che fa il collezionista: certamente è un tentativo di “esplorazione” spregiudicata delle possibilità e delle molteplicità (penso per esempio agli elenchi e alle classificazioni dell’oulipo e di georges perec in particolare), quindi ad una critica delle gerarchie, dei giudizi professionali, e delle eccellenze (ancora il tema del generico, e del qualunque…), ma anche, l’artista che fa il collezionista o il direttore/inventore di museo (broodthaers!) non sta mettendosi nel punto di vista, nella posizione dell’Altro-da sé, non sta “spostandosi”?
un abbraccio a entrambi e grazie ancora. dora if you have problem in understanding my confused italian, i can try to translate.
[cesare].
22/05/11
Dora, Cesare eccomi. Con invito speciale a Mario!
Cara Dora tu mi fai una grande domanda. che va nel cuore della mia vita d’artista. Il mio rifiuto è molto più di una resistenza. Apre un’opera, un orizzonte, un piano sul quale mi sto inoltrando. Sono felice del fatto che tu e Cesare abbiate uno sguardo così vicino al mio. Per questa ragione durante la nostra telefonata rompendo gli indugi e un naturale pudore pensai di festeggiare il nostro “vedere” elogiando i tuoi occhi. Ti sei soffermata su un passaggio chiave della nostra conversazione telefonica quando ti ho detto che dopo il telegramma del ’78 ho continuato a procedere, orgogliosamente, nel mio rifiuto, ancora, ancora, ancora. In questi anni infatti non sono stato fermo ma ho camminato molto, mi sono inoltrato in una terra nuova dove ho lottato e continuo a lottare. La mia radicalità è quella di un artista che va avanti comunque. La cultura, che è il terreno di lotta sul quale ci confrontiamo, è lì, spettacolare e quasi sempre inautentica. Il nostro spirito invece si incontra altrove. Anche l’arte credo si stia trasferendo altrove. Questo è un grande mistero. Troverai molte parole in questo testo che in verità alludono a un mio silenzio profondo. Sono un artista che parla molto, sono un artista che parla poco.
Ora proviamo a entrare nel teatro della lotta insieme, Dora, Cesare, io. Staremo in compagnia, per difenderci dalle insidie, dalle trappole dello spettacolo culturale. Nella tua e-mail, Dora, mi fai notare che quando si “rifiuta” più volte, come nel mio caso, si può assomigliare a Bartleby (“preferirei di no”) e si finisce per diventare “non specializzato”. Poi provi a mettermi in guardia su una possibile contraddizione. Quella tra la mia volontà di “ripetere” il rifiuto (ancora, ancora e ancora) e la mia critica al “non specializzato” (e “in generale”, aggiungo). Tento un chiarimento.
La mia critica dell’artista “non specializzato” e “in generale” (come dell’operaio-massa che passa indifferentemente da un lavoro all’altro) è sempre fatta non contro questo artista (o contro questo operaio). La mia critica è sempre una decostruzione della sua condizione. L’artista non specializzato (quale comunque siamo tu, Cesare e io) è solo il punto di partenza per legittimare la resistenza e l’attacco. E’ importante poi liberarlo dalla sua condizione di “lavoro morto” (Bartleby se non ricordo male lavorava nel “Dead Letter Office” di Washington), per raggiungere il lavoro vivo. Io sono dalla sua parte soprattutto quando egli combatte per liberarsi dallo stato di cose presente, compreso il suo, ripeto, compreso il suo.
Hai ragione quando dici che l’artista virtuoso e specializzato riflette l’odiosa potenza del vincitore e dell’oppressore, ma non bisogna dimenticare che anche la condizione di indifferenza dell’artista non specializzato (e dell’operaio non specializzato, l’operaio massa) può riflettere direttamente o indirettamente l’indifferenza della merce, di cui certo è vittima. Dunque occorre liberare la non-virtuosità dalla sua condizione di subalternità alla logica dell’indifferenza delle merci. La tua grande idea è di voler liberare la non-virtuosità. Magnifico, Dora. Io credo che occorra non nascondersi l’ambiguità che la tiene prigioniera. Ambedue, specializzato e non-specializzato, possiedono una maschera che alternativamente li rende graditi alla loro parte, costringendoli ad una perversa intercambiabilità che è oggi il terrore massimo nel campo dell’arte (è il nuovo fronte di lotta dell’arte contro le illusioni). Per questo motivo evito di scegliere tra specializzato e non-specializzato. Ciò che veramente mi interessa è intercettare ciò che hanno in comune, l’elemento che scatena la loro ambiguità, che ostacola la realizzazione della non virtuosità liberata. Ho avuto bisogno in questi anni di “spostarmi” continuamente (dicevo durante la conversazione telefonica, e Cesare gentilmente lo ricorda) per intercettare il volto di morte (il “lavoro morto” evidenziato da Marx) che si nasconde dietro a queste ambiguità, le orride maschere spettrali del nostro tempo (che forse viaggiano accanto agli altri spettri della modernità, come il cinema e la fotografia).
Questo è il modo in cui mi sono inoltrato nel campo della non-arte, che è naturalmente un campo fittizio, dove sembra prevalere la legge della spietatezza e dell’inganno. Ma è dentro il lavoro morto che bisogna cercare il lavoro vivo. Anche in questo caso per me non esiste una non-arte “in generale” e nemmeno una non-arte virtuosa e soprattutto una non-arte come contrario dell’arte (rimarremmo solo a testa in giù e nulla cambierebbe). Esiste una non-arte invece che di volta in volta libera la non-virtuosità e la potenzialità, dice Cesare (e come spero stia avvenendo in questo momento tra noi). Così mi trovo letteralmente dentro un terreno di lotta (e non dentro gli assoluti). Per esempio la non-arte è l’espressione che Greenberg usò per disprezzare alla fine degli anni sessanta il lavoro degli artisti che volevano non essere “puri” perché cercavano la legittimità della nuova arte “fuori” (proprio come tu Dora vuoi). Io ho raccolto questo “disprezzo” sottraendolo alla spazzatura culturale nella quale stava finendo. Quando però i miei detrattori dicono che non è possibile che l’arte sia senza “qualcosa” ecco che vedo affiorare da quel non dicibile proprio l’idea che possa esistere un arte senza qualcosa. Ecco perché bisogna inoltrrarsi nel terreno di lotta. In lontananza c’è una strana arte (ecco il mio interesse per la nostra visionarietà). Dal clima della nostra conversazione sembra emergere l’idea che il “senza qualcosa” sia una sorta di astrazione di secondo grado o secondo livello rispetto a quella kandinskiana. Siamo vicini a una seconda astrazione? Le vostre due grandi idee, la non virtuosità liberata (Dora) e l’amabilità di lavoro vivo (Cesare) lasciano immaginare una direzione, uno spostamento possibile (raccolgo l’invito alla riflessione tattica di Cesare).
Ma ora sono io pieno di domande da rivolgervi. Dora, Cesare siamo qui a cercare le nostre risposte, ma in quale luogo ci troviamo? Quando nel mondo i “qualcosa” non sono più sufficienti a dare senso, l’uomo se ne separa (non necessariamente andando oltre il mondo, anzi rimanendoci!). Ma lo ha sempre fatto in modo da superare il vecchio qualcosa. Con la sua anima e il suo spirito diceva Lukács. Quale è lo spirito dunque che ci muove (Kandinskj)?
Sono domande che con grande emozione vorrei rivolgere anche a Mario Tronti. Tu Mario con “Operai e capitale” (giustamente considerata la Bibbia dell’operaismo) offristi una “parola”, negli anni sessanta, al più grande movimento operaio del rifiuto in occidente. Ora i due gesti di rifiuto, quello della politica e quello dell’arte, possono incontrarsi. A Roma quasi un anno fa parlando con te al crs, ancora una volta del “rifiuto del lavoro astratto in arte”, a un certo punto ti fermasti, scese un profondo silenzio. Con un filo di voce ripetesti “si, astratto”. Poi tutti e due tacemmo. Possiamo riprendere quel discorso? Un abbraccio a tutti e a presto, Francesco
31/07/11
Hola a todos, Francesco, Cesare, Aurelia (espero que puedas ayudarnos si Francesco tiene alguna duda sobre lo que digo, gracias, Aurelia)
Ya son dos meses que lleva el pabellón abierto en Venecia con L’Inadeguato y todo este tiempo he estado pensando Francesco en la importancia de encontrarnos dentro de este proyecto. Ahora más que nunca entiendo tu reticencia a venir aquí, a la bienal, un verdadero monstruo extraño a los matices y a las complejidades, en donde cada día es una batalla para hacerse entender, seguramente no tiene ni siquiera mucho sentido intentarlo ¿Para qué?
Lo primero, quisiera pedirte tu dirección postal en Bari para enviarte la publicación que no creo haberte enviado todavía, y a la que puedes echar un vistazo en:
y también me gustaría pedirte que vieras un poco lo que hemos estado haciendo en el pabellón en
Todo esto, como te digo porque me gustaría mucho realmente tener la posibilidad de una conversación contigo como parte del proyecto, ahora realmente importante para mí para poder cerrarlo – tu contribución es fundamental. Entiendo ahora mucho mejor que antes el que no hayas querido venir a la Bienal, y es por ello que quisiera proponerte dos opciones (estas propuestas son también para Cesare – espero que entiendas mi español, Cesare, si no lo repetiré en inglés):
– organizar una conversación entre nosotros (Francesco, Dora, quizás Cesare, quizás Eva Fabbris, quizás Anna Daneri) en la escuela de arte de Venecia (iuav)
– viajar yo a Bari para tener esta conversación, si te resulta más cómodo.
Hay otras posibilidades (Roma) pero realmente me gustaría insistir en que tener una conversación en vivo para cerrar el proyecto es muy importante para mí.
Espero pues vuestras noticias, y os envío a todos un gran saludo,
desde Venecia
Dora
01/08/11
Carissima Dora,
ok. Vedersi, parlarsi, incontrarsi a Venezia è giusto. Come tu vuoi, come voi volete. Sono felice di risentirti, un abbraccio Francesco
22/08/11 Carissima Dora,
qualche giorno fa, il nove agosto, è apparso nel sito del CRS, diretto da Mario Tronti, il mio testo “Rifiuto” (http://www.centroriformastato.org/crs2/spip.php?article285). E’ stato completato e integrato in molte parti (soprattutto nella seconda e nel finale), rispetto all’originale, tenendo conto delle tue importanti domande con cui sono ancora in debito. Mi è sembrato dunque giusto alla fine scrivere “Per Dora Garcia” in segno di riconoscenza e ammirazione. Ho chiesto ad Aurelia di tradurlo in spagnolo, ti prego di leggerlo. Un abbraccio, Francesco
29/08/11 Querido Francesco, acabo de publicar tu texto traducido por Aurelia en el
blog.
/blog/2011/08/rechazo-por-francesco-matarrese-2/ Estoy muy contenta con ello y espero que nos veamos muy pronto en Venecia si
te es posible. Un fuerte abrazo,
Dora
RECHAZO, por Francesco Matarrese
Sunday, August 28 – 21.13h
Francesco Matarrese, Aurelia Iurilli (trad.) via Dora García wrote
El texto que sigue es una traducción realizada por Aurelia Iurilli del texto fundamental de Francesco Matarrese “Rifiuto”, publicado originalmente en:
http://www.centroriformastato.org/crs2/spip.php?article285
Agradezco infinitamente a Francesco Matarrese la posibilidad de publicar este texto en theinadequate.net, siendo como es él uno de los artistas cuya obra estuvo en el origen del proyecto. Espero que lo disfruten como yo lo he disfrutado y lo disfruto.
16/11/11 Hello, please let me know if the attached text could be ok. Feel free to correct, to add, and to take away – just let me know. Dora
CLOSING WEEKEND AT THE INADEQUATE, SPANISH PAVILION, VENICE BIENNALE
All things, however eternal they might appear to us, have an end. So The Inadequate has an end as well as the project for the Spanish Pavilion in Venice. The Inadequate will keep on existing, however, in a different form: The Inadequate archive.
To mark this transition, from performance to archive, we have organized a series of events in the weekend 26-27 November.
So on the 26th, at the Spanish pavilion in the Giardini, from 10:00 to 18:00, we will host once more Davide Savorani with a performance sharing some traits with Instant Narrative (/instant-narrative/). Davide Savorani performance is I Swear I Saw It Ep.2 (2011).
In the evening of the 26th November, and in collaboration with the Museo dell’arte contemporanea italiana in Esilio (http://cort.as/1L13), we will celebrate the conversation between Francesco Matarrese, Cesare Pietroiusti and Dora Garcia, assisted by Aurelia Iurili.
This is an event of great symbolic value for The Inadequate. The refusal by Francesco Matarrese (manifested in the famous telegram of 1978: “confermo rifiuto del lavoro astratto in arte”) and its consequences for his life, his career and his influence in a younger generations of artists, have been running as a case study and as a major influence in all the development of The Inadequate. The possibility of “practicing refusal, again and again” and create a sort of “anti-art” which is not the “nothing”, the “immaterial” or “the ephemeral” in art.
“Practicing refusal” is also much more than resistance.
This conversation will take place Saturday 26, 18:00, in Fondazione Bevilacqualamasa, Venice. http://www.bevilacqualamasa.it/home
You are all welcome.
Tre domande di Dora Garcia a Francesco Matarrese
Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia
27 novembre 2011
Resoconto critico di Mattia Pellegrini
Francesco Matarrese è inadeguato, la sua pratica è radicale, complessa, estremamente colta con una visione politica non conciliabile con il mondo dell’arte contemporanea, ormai inglobato nel culto dell’iper-spettacolarità.
Guardandolo non lo puoi pensare ad un vernissage o ad una festa lussuosa d’inizio Biennale, lo immagini piuttosto in uno studiolo cinquecentesco circondato da una libreria ideale mentre porta avanti le sue non opere.
E’ unasceta arrivato da una “terra straniera”.
Il suo “Non” è dentro la sofferenza umana, è un uomo in lotta come ripeterà più volte durante l’incontro.
E’ palpabile nella sua presenza, nel suo sguardo, che arrivare fino a Venezia è stata un impresa dolorosa e che questo luogo non lo convince completamente; la situazione “ufficiale” della fondazione è in contrapposizione nei confronti di un artista che del rifiuto ha fatto la sua arte, ma questo incontro è troppo importante e subito precisa la necessità profonda di dialogare e confrontarsi con Dora Garcia, un artista che stima profondamente.
L’incontro viene spostato a domenica mattina, chi è presente è perché vuole essere lì a sentire, l’orario fa una sorta di selezione tra i partecipanti.
Dora Garcia pone tre domande a Francesco Matarrese: l’estensione del concetto di rifiuto, il capire perché sia finito il “fracasso” dell’avanguardia, dove va l’arte del futuro. Quest’ultima è una delle tematiche più importanti affrontate durante il lungo scambio epistolare intercorso nei mesi precedenti tra Dora Garcia, Francesco Matarrese e Cesare Pietroiusti.
Alla fine dell’ottocento le avanguardie avevano promesso un cambiamento radicale della cultura. Poi è accaduto che esse stesse sono diventate complici degli eventi più crudeli del novecento. Le promesse non mantenute sono uno degli elementi più disperati e disperanti in questo contesto, c’è una sofferenza indescrivibile per un artista dinnanzi a tutto ciò.
Questa prima analisi mi porta a riflettere su una considerazione di Edoardo Sanguineti, poeta tra i fondatori del gruppo 63, quando, utilizzando un’allegoria, sosteneva che l’avanguardia ha inizio con la presa della Bastiglia, nel momento in cui il mondo borghese rompe con i codici della tradizione classica dell’Ancien Régime. Ci fu il tentativo di creare un nuovo codice attraverso una cesura netta con tutta la storia precedente ed è interessante vedere come anche questo primo tentativo d’avanguardia, per dirla con Sanguineti, fallisce trasformandosi nella “Dittatura della Borghesia”. La storia delle avanguardie del novecento è molto diversa ma questo fallimento, in un certo senso, lega queste esperienze.
Un fondo etico, la lotta all’illusione e alla menzogna, sono alla base del progetto di tutte le avanguardie, sono elementi essenziali nel pensiero di Matarrese. Le avanguardie (storiche e neo) che prima si sono prestate ad un estetizzazione della politica da parte del nazifascismo e poi sono degenerate nella politicizzazione dell’arte, alternativa che Walter Benjamin si auspicava, hanno contribuito a rendere l’artista complice di un’ulteriore sofferenza per l’umanità.
La sua presa di posizione artistica in questi anni corre parallela alla strategia politica dell’Operaismo italiano, Il suo “rifiuto del lavoro astratto in arte” è la decisione di non “produrre” più opere “in generale”, sottraendosi alla logica della mercificazione totale del capitalismo.
Nel 1978 ero molto giovane e risposi con un telegramma (è il “Telegramma del rifiuto del lavoro astratto in arte”, inizio della sua lotta nei confronti del sistema ideologico dell’arte moderna, [n.d.cur.]). Ma, come ho spiegato più volte, non c’era solo il rifiuto, c’era un’attività continuata di negazione critica.
Il rifiuto credo che possa avere una grande estensione a patto che non sia semplicemente un “non”. Penso a Mario Tronti quando sostiene che per lottare contro il capitale la classe operaia deve lottare contro il lavoro e contro se stessa in quanto capitale. Qui nasce la lotta operaia contro il lavoro, qui nasce il rifiuto del lavoro. C’è molta profondità in questo, ecco l’estensione. La classe operaia deve lottare contro se stessa per evitare di stare dentro il gioco hegeliano servo-padrone.
Dora, tu mi inviasti tempo fa una e-mail e io ti risposi dicendoti che avevi ragione nel sostenere “l’artista non virtuoso”. Però, come la classe operaia deve lottare contro se stessa anche l’artista non virtuoso deve lottare non solo contro l’artista virtuoso ma anche contro se stesso. Questa è la resistenza, questo è il rifiuto.
Il riferimento di Matarrese alla collaborazione con Mario Tronti è costante, un testimone (torneremo sull’importanza dei testimoni) fondamentale per la sua pratica artistica e non solo. Questa collaborazione è uno dei pochi esempi dove politica e arte s’incontrano profondamente, per costruire, lottando sul margine, qualcosa di nuovo.
Mario Tronti è il maggior teorico dell’operaismo degli anni sessanta, dalle sue idee è nato quel laboratorio di sperimentazione politica che ha fatto scuola, non solo in Italia; le sue tesi sono state riprese dal gruppo di Potere Operaio, tra cui, Oreste Scalzone ( tra i primi animatori della “variante insurrezionalista dell’operaismo”), Toni Negri (che definisce il rifiuto del lavoro “non semplicemente un atto politico ma un atto costitutivo di altra umanità”), Paolo Virno ( la sua analisi sulla Moltitudine, sull’Esodo, ma non solo, lo rendono uno dei pensatori più interessanti del panorama culturale internazionale), Franco “Bifo” Berardi (che oggi propone di creare un nuovo tipo di lotta basato su l’inazione, “Do Nothing Insurrection”, sempre legato al tema del rifiuto) e molti altri, tutti debitori nei confronti del pensiero di Tronti.
La grande influenza teorica di Mario Tronti è nota a tutti. E’ merito di Francesco Matarrese essere riuscito a portare la radicalità del rifiuto trontiano e del suo complesso piano di lotta all’interno della stesso campo di azione artistico e di aver posto il tema della cesura. Marcel Duchamp è chiamato in causa.
La cesura di Duchamp è innanzitutto quella che ha portato “fuori” il significato e posto la questione della legittimità dell’opera d’arte (contrariamente a molti artisti modernisti americani difensori, come sostiene Greenberg, di un significato ”dentro”). E’ nota però anche l’altra cesura dell’artista francese, l’uscita dal mondo dell’arte. Dopo aver lasciato nel 1923 “definitivamente incompiuto” il Grande Vetro decideva di dedicarsi alla vita e al gioco degli scacchi (che considerava un’attività più stimolante per la sua mente rispetto all’arte). In realtà non smise mai di sperimentare, di indagare sempre nuovi spazi di produzione di senso, trasformando la propria esistenza in un’opera d’arte.
Nella recente biografia di Bernard Mercadé “Marcel Duchamp, La Vita a credito”c’è un capitolo che s’intitola “L’artista di domani si darà alla macchia” dove Duchamp, facendo una riflessione sul mutamento da una concezione “esoterica” a “essoterica” dell’arte, dovuta alla commercializzazione, si augura “una rivoluzione di ordine ascetico di cui questa volta il pubblico non si accorga nemmeno e che solo pochi iniziati sviluppino questa rivoluzione ai margini del mondo accecato dai fuochi d’artificio dell’economia. The great artist of tomorrow will go underground” (da interpretare nelle diverse chiavi di lettura, tipica metodologia duchampiana).
L’artista dovrà nascondersi al grande pubblico:“Datevi alla macchia, non fate capire a nessuno che state lavorando”.
E qui mi sembra molto interessante questa posizione anche rispetto alla grande importanza che l’artista barese dà ai suoi testimoni – “persone che più interrogo e più riempiono la mia vita allontanandomi dalla paura della morte” – piuttosto che alla ricerca di un vasto pubblico.
Mi viene subito in mente l’artista del futuro pensato da Duchamp; un artista che lavora ai margini, in disparte, non tanto per il proprio tempo ma per quello avvenire. Qui c’è la solitudine di Matarrese, qui c’è il gesto del rifiuto come singolarità .
Questo mi porta ad un’altra delle riflessioni che l’artista ha affrontato a Venezia ovvero la consapevolezza che bisogna stare comunque dentro ma costruendo un fuori, una separazione.
E’ possibile una separazione “dentro” questa società. Benvenuti nel deserto del reale, dice Slavoj Žižek, è impossibile restare solamente fuori.
Da dentro dobbiamo creare una sorta di “separazione”.
Credo sia importante accennare al modo in cui Matarrese racconta la sua storia, che ripeto è visibilmente dentro la sofferenza.
La sofferenza che porta questo gesto radicale ha conseguenze enormi nell’esistenza di un uomo, uscire è sempre doloroso, esiliarsi nell’intelligenza può portare a scottarsi con quel pensiero dei pensieri che, come la storia ci ricorda, può trasformarsi nel punto di non ritorno.
Durante tutta la discussione l’artista ha continuato a parlare con grande emozione, a tratti con fatica, ma più il tempo passava e l’atmosfera diventava quella di un gruppo di amici, più la sua voce acquisiva forza e sicurezza, soprattutto quand’è tornato sul tema del Rifiuto:
il rifiuto non è solamente un non! Il rifiuto apre un orizzonte, un enorme orizzonte. Non soltanto un orizzonte dove tu cammini e ti muovi ma un orizzonte nel quale tu combatti, lotti, ti devi difendere, devi attaccare. E’ molto difficile per me parlare ordinatamente di queste. Ho bisogno di continuare a lavorare in singolarità perché ho imparato che da questa singolarità viene la mia forza. Quando Francesco abbracciò i lebbrosi tutti capirono che la storia era cambiata; era un gesto, una singolarità. Sono sempre molto a disagio nel trattare queste questioni, per esempio adesso parlo molto, ma in effetti non parlo. Che cosa ho detto? Nulla. Che cosa è importante nel rifiuto? Il gesto. Ma il gesto del rifiuto è una singolarità.
Questo nostro incontro è giustamente poco pubblico, ma nella patria dello spirito è molto seguito. E’ forse a questa patria che Nietzsche pensava quando parlava dei suoi inadeguati, che chiamava inattuali. Per Mario Tronti sono “esistenze invisibili”. Si parla di uomini di questo tipo sin dagli inizi delle avanguardie, uomini che vengono da una terra sconosciuta, una zona dello spirito. Noi non dobbiamo avere paura delle parole, non dobbiamo aver paura della parola spirito, bisogna essere coraggiosi. Il coraggio è nel prendere le parole che vogliamo. Le usiamo dentro di noi.
La questione che gli ho voluto porre a conclusione dell’incontro è legata profondamente alla terza domanda di Dora Garcia “Dove va l’arte del futuro?”. Gli ho chiesto se poteva approfondire il discorso dell’artista “senza opera”, sul rifiuto e sulla contestazione di un sistema attraverso la decisione di non produrre più “lavoro astratto e in generale”. Qualche mese prima, durante un incontro nello studio di Cesare Pietroiusti, aveva parlato del fatto che non era tanto necessario parlare di nuovi lavoratori quanto di un nuovo lavoro.
Sì, pensavo a Giotto. Senza la rivoluzione del lavoro l’arte di Giotto è impensabile. Non a caso il suo “nuovo lavoro” era stato anticipato dai “non virtuosi”, perché le cattedrali erano state costruite dalla comunità. Il campo del senza opera è immenso e io lo porto avanti sin dal 1978. Uno dice: senza opera, non hai fatto niente. Io invece ho lavorato continuamente, sui testimoni e sulle testimonianze, che non sono il “niente”. Il niente è da combattere. Il “ non” non è da mettere in vetrina. Oggi il nichilismo è una moda, molti filosofi del “non” ignorano ciò di cui stanno parlando. Agli inizi del novecento Kandinsky rompeva la forma, quello era il primo “no”. Non bisogna dimenticare tuttavia che nello stesso periodo Schönberg già cercava la “grande forma”.
La complessità di questa ricerca ci mostra la possibilità e la necessità di un nuovo lavoro umano. Un suggerimento per le nuove generazioni di artisti. Questa società dello spettacolo, iper-spettacolare se non già post-spettacolare, oramai è destinata a superare persino le più pessimistiche previsioni dei “Commentari” di Guy Debord. Senza trascurare la circostanza che lo stesso spettacolo integrato è oramai interconnesso con il dominante sistema finanziario globale. E’ importante e rilevante che Dora Garcia abbia voluto concludere il suo progetto L’Inadeguato con un intervento di Francesco Matarrese (come del resto tutto il progetto L’Inadeguato di Dora Garcia alla Biennale di Venezia che, attraverso il divenire degli incontri/performance, si è determinato come il cuore pulsante della produzione di senso ponendo molte delle riflessioni care anche a Matarrese).
Abbiamo bisogno di artisti che ci dicano: l’arte non è una passeggiata, non è una festa o un vernissage, è altro. E’ lottare per rifondare.
A chi dovrebbe spettare, se non all’artista, il ruolo di mettere in discussione le dinamiche della società dominante? Chi può praticare il territorio del rifiuto? A chi spetta quella produzione di senso sovversiva che nella moltitudine possa travalicarne i confini e proporre nuovi modelli di vivere comune?
Il mondo dell’arte deve nuovamente assumere su di sé responsabilità e colpe. Solo così può sperare di tornare ad essere al centro del dibattito politico-culturale.
Sia chiaro che non mi riferisco ad un “arte sociale” buona per tutte le stagioni, ma nei fatti sterile. Penso a un’arte capace di restituire la complessità del mondo e dell’uomo, così che l’animale umano non sia più corpo docile, per dirla come Michel Foucault, dinnanzi al potere.
Mattia Pellegrini
Roma, febbraio 2012
Ringrazio Dora Garcia, Francesco Matarrese e Cesare Pietroiusti per aver messo a disposizione i materiali di questa conversazione e concesso la pubblicazione.
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